La preistoria in Sicilia

a cura del prof. Vincenzo Barone

 

I primi insediamenti

 

Qualche decennio orsono si riteneva che la Sicilia fino a 12.000 anni fa (la fase finale del Paleolitico Superiore) fosse del tutto disabitata e ricoperta quasi del tutto da boschi e macchia mediterranea. Un territorio quindi nel quale regnavano incontrastati i mammiferi di medie e grandi dimensioni. A conferma di ciò stavano numerosi ritrovamenti in alcune grotte del trapanese e del palermitano di ossa e crani giganteschi dotati di una grande cavità centrale. La qual cosa, in un periodo nel quale l’archeologia riceveva stimoli alla ricerca anche dal mito, secondo alcuni studiosi poteva inverare addirittura la leggenda dell’esistenza di giganteschi esseri umani vissuti nell’isola in epoche ancestrali, come i monoculi Ciclopi omerici. E invece, oggi ne siamo certi, quei crani giganti col grande foro della proboscide appartenevano a quegli stessi grandi mammiferi, gli elefanti siciliani, che forse coesistettero per qualche tempo con l’uomo normotipo nell’isola.

 

Allora vediamo di capire quando è veramente arrivato l’uomo in Sicilia.

 

Qualcuno tra i paleontologi si è spinto ultimamente nel campo infido delle supposizioni, buttando per così dire l’immaginazione oltre l’ostacolo, formulando quindi un’ipotesi basata su qualche labile prova, messa lì in attesa di robuste conferme, secondo la quale l’uomo potrebbe essere giunto nell’isola nel tardo Paleolitico Inferiore, attorno a 300.000 anni fa (nelle fattispecie dell’homo erectus o di Neanderthal, come potrebbero suggerirci il deposito alluvionale del Fiume Grande di Delia o altri siti dell’agrigentino, dove le tracce consistono in reperti litici di giacitura fondamentalmente non primaria). A questa attualmente molti studiosi preferiscono un’altra ipotesi di lavoro sulla quale si troverebbero più concreti riscontri scientifici e cioè quella che considera un’epoca di poco anteriore a 30.000 anni fa. In questo senso alcune tracce del passaggio dell’uomo sono state rinvenute presso il Riparo di Fontana Nuova (Ragusa), mentre più incerti sembrano altri ritrovamenti sulle coste dell’agrigentino. Ma mancano prove inoppugnabili.

 

Ad oggi le certezze indiscutibili, non solo di una presenza ma anche di una continuità abitativa dell’isola, risalgono attorno a 14.000 anni fa. La datazione del primo scheletro umano in nostro possesso, quello di Thea, proveniente dalla Grotta di San Teodoro nel messinese e conservato oggi al Museo Gemmellaro di Palermo, è infatti risalente secondo il radiocarbonio a 14.750 anni fa. Notevoli sono stati i ritrovamenti della presenza umana di questa fase, soprattutto quelli collocati nell’alveo dell’Epigravettiano Finale (14.000 – 8.000 anni fa), quelli dell’area del basso Belice ad esempio, ma anche della costa nordoccidentale dell’isola.

 

Volendo comunque restare ancorati a suggestioni o ipotesi di lavoro su datazioni ragionevolmente alte resterebbe pur tuttavia aperta una questione sconcertante: l’assenza di un popolamento stabile e diffuso in Sicilia nel Paleolitico Medio (200.000 – 40.000 anni fa), età nella quale le sue testimonianze sono praticamente nulle o quasi, come se gli esseri umani si siano come volatilizzati per parecchie decine di millenni, riapparendo cospicuamente alla fine del Paleolitico Superiore.

 

In ogni caso, per quanto ne sappiamo, l’uomo arriva molto tardi, soprattutto se si considera che i primi abitatori della penisola hanno calcato il suolo italiano almeno 700.000 anni fa.

 

Le ragioni dell’immenso “ritardo” sul territorio italico si confondono e si mescolano per il momento ancora nel terreno malcerto delle ipotesi, vista tra l’altro l’esiguità dei rinvenimenti. E forse la ragione più plausibile di questo vuoto è da rintracciare proprio nella relativa scarsità di ricerche sistematiche e diffuse sul territorio siciliano.

 

Ma da dove provenivano questi nomadi protosiciliani?

 

L’ipotesi fondamentale di una provenienza africana è abbastanza dubbia, anche per ragioni paleontologiche, benchè non sia da escludere. Più plausibile sembrerebbe un arrivo graduale e diluito nel tempo dalla penisola italiana.

 

 

I graffiti dell’Epigravettiano Finale

 

Di straordinaria valenza nel panorama archeologico mondiale sono alcune testimonianze figurative appartenenti all’Epigravettiano Finale, sia sotto il profilo paleontologico che artistico. Ci riferiamo soprattutto alle stupefacenti figurazioni delle grotte dei Genovesi a Levanzo nelle Isole Egadi, dell’Addaura a Palermo e della Giovanna presso Siracusa.

 

A Levanzo le raffigurazioni appartengono a due distinte fasi: quella cui si accennava sopra e un’altra collocabile tra il neolitico e l’eneolitico.

 

Le figurazioni paleolitiche sono trentaquattro, trenta zoomorfe e quattro antropomorfe. Gli animali raffigurati sono quelli che popolavano 12.000 anni fa le diffuse macchie mediterranee ed i boschi siciliani. Paradossalmente, per la sua struttura morfologica, possiamo essere presso che certi che quegli animali non fossero endemici, né tanto meno stanziali nell’isola di Levanzo. Possiamo piuttosto ritenere, avendone conferma dalla geologia, che il breve tratto di mare che separa le prime due Isole Egadi dalla Sicilia fosse a quell’epoca una lingua di terra emersa, e che gli animali potessero essere osservati quindi nel territorio più contiguo all’isola maggiore.

 

 

Le specie rappresentate sono quelle degli equidi, dei cervidi e dei bovidi. I tratti del graffito sono sicuri profondi, continui, talvolta sottili, per molti aspetti assimilabili alle figurazioni franco-cantabriche coeve, ma distinti da alcune peculiarità del tutto siciliane che denotano, come dice Sebastiano Tusa, “una certa essenzialità ricercata”: la mancanza generale di particolari descrittivi interni, la volontà di rappresentare intuitivamente l’idea di tridimensionalità e il gusto per la varietà nella scelta di pose, che sono molteplici con movimenti diversificati.

 

Alcune figurette spiccano per una particolare grazia e freschezza. Quelle di due cervi, ad esempio, con la testa reclinata all’indietro, come a volere cercare con grazia lo sguardo dell’osservatore; un bovide che incede imponente, come solida immagine di energia e maestosità, un altro con la lingua penzolante che segue vividamente una vacca.

 

E poi le figure umane, sobriamente tratteggiate, ma con tratto deciso, interessantissime da molti punti di vista. Tre di esse sono raccolte in un unico spazio. Quella centrale, più imponente, misteriosa, con barba e capelli evidenti e senza tratti del volto distintivi, ha il capo raccolto in una strana forma parallelepipede terminante come altre tre figure umane in una specie di copricapo a T ed il tronco chiuso in una struttura rettangolare senza maniche. Alla sua destra una figura dai contorni sinuosi, con in testa il solito copricapo a T, senza definizioni di dettagli anatomici e con una specie di treccia che discende dalla nuca. A sinistra una silhouette sommariamente accennata col capo coperto da una maschera dalle sembianze avio morfe. In un’altra zona della Grotta la ieratica e solenne figura di color rosso di un uomo col consueto copricapo a cappello, in una posizione di seduta ottenuta sfruttando abilmente anche il rilievo della sottostante parete rocciosa.

 

Quale valenza comunicativa attribuire a queste immagini antropomorfe? Domanda pregna di fascino, per rispondere alla quale potrebbe essere necessario fare riferimento all’altro grande capolavoro dell’epigravettiano siciliano e cioè i graffiti dell’Addaura a Palermo.

 

Nella più piccola delle quattro cavità naturali del Monte Pellegrino a nord di Palermo si dipana infatti un complesso di incisioni senza paragoni in Europa.

 

I graffiti della Grotta dell'Addaura

I graffiti della Grotta dell’Addaura

Su una parte della parete rocciosa si dispongono le solite immagini teriomorfe di bovidi, cervidi ed equidi. Ultimamente il Mezzena ha sostenuto che l’ignoto esecutore si ponesse in una prospettiva a 45° rispetto alle figure e che quindi questa sarebbe la giusta posizione da cui dovremmo guardarle. Ma accanto alla consueta presenza dei mammiferi ancestrali si dispone un circolo costituito da alcune figure umane in piedi, maschili e femminili: il loro corpo è coperto solo da un perizoma ed il capo è chiuso sul volto da un involucro, che, con evidenza soprattutto in alcune figure, termina in una sorta di becco aguzzo di uccello. Nella parte posteriore del capo, sulla nuca, la maschera sembrerebbe terminare in una forma simile ad una chioma fluente sulle spalle, chiusa forse in una guaina. Alcune figure tengono le braccia alzate al cielo, altri le piegano a squadra. Al centro campeggiano due figure indubbiamente maschili, prone, del tutto nude, con esili ed incomplete braccia poggiate a terra, forse anch’esse coperte nel volto da una maschera appuntita. Le gambe di uno di loro sono piegate all’indietro, verso i glutei. In entrambi vediamo delle incisioni attorno alla vita e sulla schiena, mentre un segno molto netto, come una corda, pare partire dalla parte alta della schiena o dal collo per arrivare ai glutei o più oltre.

 

Le figure sono tratteggiate con molte caratteristiche del consueto stile mediterraneo che abbiamo descritto per la Grotta del Genovese, ma con un ductus molto originale, con una linea molto sicura, molto netta, fluida, tendente ad allungare elegantemente le figure, quasi a contenere e dissipare un’energia corporea controllata e scattante.

 

E’ una scena corale dotata di rara armonia, che reca da una parte l’eleganza di una danza, dall’altra l’inquietudine di un dramma. Una raffigurazione nella quale certamente l’esecutore dimostra di avere saldamente acquisito il senso del ritmo, del coordinamento reciproco delle figure (per alcuni le figure con le braccia alzate, “i lanciatori” si collegano ad esempio a quelle con le braccia piegate, “ i ricevitori”), ma al tempo stesso pare terribilmente consapevole della immanenza ieratica di quanto accade, della terribile serietà di un rito profondamente connesso con l’etnos di quel lontano popolo di cui lui certamente è parte. In ogni caso una iconografia assolutamente inconsueta, senza termini di paragone, almeno fuori dalla Sicilia.

 

Sin dai lontani anni ’50 le ipotesi sul significato di queste incisioni si sono avvicendate e contrapposte con grande dovizia di fantasia ricostruttiva, quasi con la voluttà della riesumazione di un cold case. Per alcuni la scena dell’Addaura era un complesso gioco acrobatico del Paleolitico (ecco i corpi al centro sarebbero ciò che verrebbe lanciato e ricevuto); per altri un rito di iniziazione maschile con una sfida di resistenza all’ipossia (ne sarebbe prova la postura itifallica dei due ignudi provocata dalla mancanza di ossigeno); per qualcuno si tratterebbe di un sacrificio umano, attestato nel mondo mediterraneo anche in quest’epoca; per altri ancora l’esecuzione di una pena capitale indotta da un autostrangolamento.

 

Sebastiano Tusa e chi scrive, pur nella doverosa incertezza e nel rispetto che merita la remota oscurità di questo mistero figurativo, propendono per l’ipotesi del sacrificio umano, avvalorando questa tesi proprio nel confronto con le quattro figure della Grotta del Genovese. Similare è infatti il copricapo da uccello della figuretta a sinistra del trio di Levanzo, mentre il misterioso personaggio centrale senza arti superiori visibili potrebbe avere braccia e torso racchiuse da un lungo indumento rituale vincolante, come una camicia di forza, in attesa dunque del rito esiziale. Anche lui, poi, e le altre figure antropomorfe, hanno la testa sormontata da un copricapo a T, una specie di berretto che potrebbe significare l’appartenenza ad un culto o la partecipazione ad un rituale. Un rituale di sacrificio di un essere umano immobilizzato da una tunica coercitiva. E allora, come sostiene Tusa, in questa rappresentazione del sacro il personaggio con la maschera d’uccello potrebbe essere l’officiante, l’uomo al centro la vittima sacrificale e quello a destra, così come l’altro discosto e seduto, i rappresentanti dei devoti partecipanti.

 

Ecco il confronto che potrebbe, come già detto, illuminare reciprocamente di senso i misteri dei due siti paleolitici, portando ad immaginare anche per l’Addaura tutta la cruenta inappellabilità di una tragedia che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Una tragedia rituale legata probabilmente, in un mondo di cacciatori, ad un culto, al debito di sangue tributato ad un dio-uccello forse, un rapace cacciatore: magari al principe dei rapaci, all’aquila.

 

Naturalmente seguire questa ipotesi porterebbe a proiettare le ricerche su uno spettro molto più largo di modalità di indagine rispetto al passato, a vagheggiare addirittura l’esistenza nella Sicilia nordoccidentale di un “popolo dell’aquila”, diffuso quantomeno tra le Egadi e il palermitano, con costumi, cultura materiale e rappresentazioni del sacro peculiari, la cui storia, i cui riti e tradizioni sarebbero tutti da scrivere, immaginare e dimostrare.