L’isola del dissenso

a cura della dott.ssa Alessia Facineroso

 

L’esplosione delle insurrezioni popolari nel 1860

 

 

«A’ Siciliani. Chi è Siciliano ed ha un cuore tosto che saprà l’ora che suonerà per noi, la quale è troppo imminente, imbrandisca le armi e, da qualunque punto ov’ei si trovi, corra o solo o a squadre pel paese che gli sarà indicato per piombare sulla città che bisognerà espugnare colla forza. Sarà capo della banda dei singoli paesi chi se ne sentirà la mente ed il cuore, e gli sarà cassa per occorrere ai bisogni quella de’ Percettori e Ricevitori – dietro una esatta consegna risponderà egli di ogni menoma spesa. Ogni paese resti tranquillo sotto l’assoluta volontà di un solo che scelto dal popolo non avrà altra missione che far tacere i partiti, impedire, che si versi goccia di sangue, ed avvertire per espressi qualunque movimento militare gli sarà a conoscenza. Quantunque le truppe napolitane hanno capito nel maggior numero che dovendo scegliere o l’infamia e la morte, o la gloria e la fortuna, bisogna loro sposare la causa, nella quale solo da Italiani possano sperare, se per uscire all’aperto abbandoneranno i paesi da essi presidiati, e questi si sentiranno di poter abbattere le rimaste, insorgano e vadano ad incontrare i loro fratelli, che per loro soltanto avranno scelti i maggiori sacrifizi nelle campagne. Da tutti ed in ogni punto poi si deve intendere a ritardare i movimenti delle milizie, ed armarvi delle loro armi ed abiti. Ogni fatto che infrange le nostre leggi di virtù sarà punito colla morte. I principi della più santa virtù, le Potenze dominatrici del mondo, e Dio sia con noi». L’invito all’azione era del 1860, e proveniva da uno di quei comitati segreti nati in Sicilia già all’indomani del fallimento dei moti del 1848. L’arrivo di Garibaldi aveva poi dato nuova linfa all’attività cospirativa, rendendo possibile quell’infuocato effluvio di parole e di iniziative. Nella primavera del 1860 tutta l’isola assisteva infatti ad una profonda crisi militare ed istituzionale, che la gettava in una difficile fase di transizione, tra il crollo del vecchio regime e la nascita di una nuova compagine statale. Fra le pieghe di quel processo si annidavano dei vuoti di potere che le classi dirigenti isolane erano ansiose di occupare, scatenando aspri conflitti e lotte intestine. In alcuni casi, esse si innestavano nell’alveo del conflitto di classe, collegato alla più antica e complessa questione demaniale, destinata ad acuirsi dopo l’emanazione del decreto garibaldino del 2 giugno e a sfociare in vere e proprie jacquerie: Bronte, Biancavilla, Alcara Li Fusi erano tutti esempi di questo paradigma.

 

In altri casi, tuttavia, lo scontro si collocava invece in un ambito squisitamente politico – legato cioè alla gestione del potere locale – e aveva come protagoniste le èlites cittadine, che avvertivano adesso, tra le deboli maglie del nuovo Stato, il prepotente bisogno di rimodularsi all’interno dello spazio che si era venuto a creare, cogliendo in pieno le inedite possibilità di governance che si erano aperte dopo la liberazione dell’isola. Si trattava di ri-utilizzare forme e mezzi di governo che erano stati sperimentati già nel 1848, cercando però di non commettere gli stessi errori di allora; insomma, fare il ’48 senza rifare il ’48: l’uso della stampa, l’attribuzione delle cariche municipali, la gestione dell’ordine pubblico erano così strumenti fondamentali attraverso cui provare a garantirsi la leadership dell’amministrazione, e da questa trarre, ove possibile, vantaggi personali. In questi casi – spicca su tutti l’esempio della Sicilia sud-orientale – la dicotomia tra comunisti (intesi come coloro i quali rivendicavano la divisione delle terre demaniali) e usurpatori, così significativa nei contesti etnei, si sovrapponeva o si sostituiva alla più nobile contrapposizione tra moderati e democratici, egualmente interessati a guidare l’annessione della Sicilia al nuovo Stato, naturalmente con forme e tempi profondamente diversi tra loro.

 

 

Case Study: Biancavilla

 

Nel corso del XIX secolo il territorio di Biancavilla era stato sottoposto a diverse frizioni dovute all’annosa questione dello scioglimento degli usi civici, che portava con sé la spinosa problematica della distribuzione delle terre demaniali. Questi attriti – fomentati da una classe politica borgese – avevano provocato, nel corso delle esplosioni rivoluzionarie del 1820 e del 1848, veri e propri “assalti alle terre”, che quel ceto rampante aveva deciso di cavalcare, al fine di aumentare il proprio peso all’interno del Comune. Si trattava, tuttavia, di una strategia “a tempo determinato”, destinata in breve tempo a mostrare le corde, e a trasformarsi in episodi di lampante trasformismo politico: molti agitatori rivoluzionari, infatti, già all’inizio della restaurazione avevano abbandonato la direzione di quella scomoda battaglia, divenendo in fretta fedeli sudditi della monarchia.

 

Un esempio di questo atteggiamento era quello di Angelo Biondi – presidente del Comitato rivoluzionario nel 1848 e “borbonico di ritorno” dopo il 15 maggio dell’anno successivo – che nei primi mesi del 1860 aveva deciso di mutare ancora schieramento, fino a diventare il punto di riferimento di una numerosa fazione di braccianti, che reclamava adesso una rivincita nei confronti degli “usurpatori” e un immediato risarcimento dei torti subiti. Ad agire da moltiplicatore delle tensioni erano poi intervenute le speranze di rinnovamento legate allo sbarco di Garibaldi, nonché il progressivo sgretolamento dell’apparato statale borbonico. Di fronte ai brandelli dell’autorità pubblica e alle vittorie del liberatore dei due mondi, i contadini avevano creduto che fosse finalmente giunto il momento di agire, nonostante i tentennamenti di Biondi, che cercava adesso di gestire il conflitto sociale senza compromettere l’ordine pubblico. I suoi appelli, tuttavia, erano destinati a rimanere privi di seguito: gli eventi della primavera del 1860 avrebbero mostrato in modo definitivo quanto la sua autorità fosse ormai compromessa.

 

Alle prime ore del 27 maggio, infatti, una folla tumultuosa, guidata da due dei più influenti capi dei “comunisti”, Salvatore e Vincenzo Papotto, era scesa in campo, reclamando a gran voce la distribuzione delle terre comunali e di quelle usurpate. La portata della protesta era cresciuta nei due giorni successivi, e la fiumana di reclamanti si era ingrossata fino a sfiorare la soglia di 4.000 persone: tutti insieme avevano occupato allora le terre contese, cominciando ad abbattere alberi e ad incendiare case e proprietà.

 

Infine, dal 3 al 7 giugno la rivolta si era tinta di rosso. La distruzione era sfociata in feroci omicidi, eseguiti da alcuni braccianti guidati da Giuseppe Furnari, che avevano lasciato sul suolo ben 14 cadaveri, decapitando così il vertice di quell’èlite possidente arricchitasi attraverso le usurpazioni.

 

Solo il 15 giugno l’intervento del Generale Poulet, che con le sue compagnie aveva represso il moto manu militari, era riuscito a ricondurre il paese all’ordine. Per Biancavilla si era aperta così la fase della giustizia sommaria: il Consiglio di guerra, convocato in tutta fretta, aveva deliberato la condanna a morte per Giuseppe Furnari, e numerose pene detentive per gli altri contadini coinvolti nei fatti di giugno. Biondi, invece, dopo un processo durato due anni era stato prosciolto.

 

 

 

Case Study: Bronte

 

Nei primi giorni di agosto del 1860, mentre si accingeva a passare lo stretto, Garibaldi si trovava coinvolto in uno degli episodi più cruenti dell’impresa dei Mille: la repressione della sommossa scoppiata nella cittadina di Bronte, e presto estesa ai paesi limitrofi. Era, quella di Bronte, una storia insieme raccapricciante e tragica, sulla quale naufragavano gran parte delle speranze di rinnovamento sociale che avevano accompagnato la campagna garibaldina in Sicilia, e che si incentravano in modo particolare sulla possibilità di redistribuzione delle terre demaniali, una richiesta pressante e generalizzata, che il dittatore aveva deciso di esaudire con il decreto del 2 giugno.

 

In quella data, ad appena pochi giorni dal suo arrivo in Sicilia, Garibaldi aveva invitato le popolazioni ad insorgere, promettendo in premio un posto privilegiato nella ripartizione delle terre, una misura che avrebbe dovuto realizzarsi dopo lo scioglimento delle promiscuità tra ex feudatari e comuni, stabilite dalla legislazione demaniale precedete: le riforme borboniche, infatti, avevano già inteso spezzare i latifondi, e il vero problema, a Bronte come altrove, erano piuttosto le usurpazioni, che avevano vanificato la portata innovatrice di quelle misure.

 

Proprio l’emanazione del provvedimento garibaldino, tuttavia, era destinata a scatenare un conflitto interno alle comunità che si nutriva del risentimento antico e mai sopito nei confronti degli usurpatori, e che si riaccendeva adesso con nuova violenza, abilmente strumentalizzato dalla classe politica siciliana in funzione di polo d’aggregazione del consenso popolare.

 

Le sommosse che erano scoppiate in diverse zone dell’isola avevano avuto un focolaio pericoloso nella città di Bronte: gli eventi si erano svolti nell’arco di 4 giorni, durante i quali incendi, saccheggi, macabre torture e omicidi avevano letteralmente sconvolto la cittadina. Erano fatti già avvenuti in occasione delle rivoluzioni del 1820 e 1848, in cui i contadini avevano richiesto la suddivisione delle terre demaniali e il recupero di quelle usurpate. Tuttavia, in nessuno dei casi precedenti la reazione era stata così feroce e veloce: dopo la repressione del moto, in soli 5 giorni Bixio aveva applicato le leggi eccezionali, processato i colpevoli e tutti i presunti tali, eseguito le condanne a morte e inviato al Tribunale di Messina tutti gli altri imputati. Probabilmente, la sua durezza rispecchiava da un lato il desiderio di trovarsi vicino a Garibaldi nel momento del passaggio dello stretto, dall’altro l’ansia del generale e del governo provvisorio di risolvere velocemente la questione. È probabile che Garibaldi avesse tenuto conto sia della posizione in cui si trovavano la Sicilia e l’impresa garibaldina, soprattutto in rapporto all’atteggiamento delle grandi potenze nei confronti della prosecuzione della sua impresa, sia della necessità di un veloce ristabilimento dell’ordine pubblico in Sicilia.

 

Ne andava, del resto, della possibilità stessa di riuscire a completare la sua impresa. Tuttavia, quello che probabilmente sfuggiva al generale ed ai suoi uomini, come a tutti quelli che per lungo tempo si sarebbero soffermati a riflettere sui fatti di Bronte, era la profonda complessità delle dinamiche del conflitto, che non si esauriva affatto nella semplice dialettica rivoluzione/reazione.

 

Al partito dei “ducali”, che si muovevano e speculavano all’ombra della Ducea, dopo il 1848 si era contrapposto un partito di “comunisti”, che difendeva invece i diritti del comune. A capo di questa formazione stava una nuova generazione di borghesia: avvocati, medici, imprenditori, tutti liberali ma con vene di radicalismo democratico nel loro sangue. Carmelo e Silvestro Minissale, Luigi Saitta, Nicolò Lombardo erano stati coloro che il 23 aprile del 1848 avevano occupato le terre del boschetto di Maniace, scatenando le ire dell’amministratore della Ducea, Thovez, che era persino riuscito a far arrestare i due Minissale. I due uomini, comunque, non erano rimasti a lungo in prigione, ed erano stati salvati da un atto legislativo del Parlamento palermitano. Il ritorno del Borbone aveva poi chiuso la questione, liquidando i comunisti dal governo della città e restituendo le terre al duca e ai ducali.

 

La contesa si era sopita, non così l’odio della comunità nei confronti degli usurpatori. Così, nel 1860, quando erano giunti gli echi dei decreti di Garibaldi, si erano scardinati i fragili equilibri che avevano retto la vita del paese: la tradizionale divisione tra comunisti e ducali veniva ora attraversata dalla nuova contrapposizione tra liberali e borbonici. Era però, è bene precisarlo, una contrapposizione trasversale: non tutti i liberali erano comunisti, non tutti i borbonici ducali. Proprio i Thovez, anzi, imbeccati dal console inglese, avevano assunto in fretta il manto di liberali, appoggiando la missione garibaldina nel tentativo di tutelare i propri interessi. Questa strategia aveva portato ad una maggioranza ducale all’interno del consiglio civico, dando la netta sensazione ai capi comunisti che la partita fosse ormai persa, e che l’unica possibilità di riscatto fosse quella di sobillare le masse intorno al problema delle terre, provando ad assumere la leadership politica con la forza. La situazione si faceva sempre più drammatica: l’amministrazione inglese finanziava ben 3 compagnie di guardia nazionale; i comunisti rispondevano con la compagnia di Spatajoli, comandata dallo stesso Lombardo.

 

Quando, la mattina dell’8 luglio, Franco Thovez cominciava una lunga scorribanda attraverso la città con l’intenzione di requisire armi ed arrestare i contadini, Lombardo – nel tentativo disperato di dare un’estrema sterzata politica al movimento – rispondeva con la promozione di una grande manifestazione per il 5 agosto, che chiedesse democraticamente e legalmente l’attuazione del decreto del 2 giugno. Purtroppo era tardi. La sera del 1 agosto la folla, organizzata, ingannando la vigilanza della guardia ducale chiudeva le uscite del paese con presidi armati.

 

L’alba del giorno dopo rischiarava i contorni di una città assediata. 12.000 persone si riversavano per le vie. Verso mezzogiorno la folla si radunava dinanzi al casino dei civili, chiedendo la divisione delle terre. Alle 23, il suono delle campane dava inizio alla mattanza. Delinquenti evasi, facinorosi dei paesi vicini che si erano uniti alla folla dei contadini cominciavano così la loro caccia: le case dei ducali, il casino dei civili, l’archivio comunale, il teatro erano gli obiettivi di quella folla tumultuosa.

 

Cantavano, bevevano, e intanto davano l’assalto a uomini e palazzi.

 

Giorno 3 Lombardo e Saitta venivano prelevati dalle loro case e acclamati presidenti del Municipio e del Consiglio. Nell’afa soffocante del pomeriggio cominciava la barbarie: il notaio della Ducea, Cannata, veniva nascosto in un covone di letame, dopo di che tirato fuori e mutilato, e ancora trascinato sin sotto il balcone della casa del figlio Antonino. La rivolta era diventata una caccia all’uomo. Alle 5 del pomeriggio cadeva anche Antonino Cannata, poi Mariano Zappia, Mariano Mauro, Nunzio Lupo, Nunzio Battaglia, Francesco Aidala ed altri. Alle 4 del pomeriggio del 4 agosto il tumulto si sposava davanti al collegio, dove la mattina, nell’estremo tentativo di Lombardo di dare parvenza legale al moto, erano stati rinchiusi, con la promessa di essere processati, il segretario della ducea, Rosario Leotta, l’usciere Giuseppe Martinez, Illuminato Lo Turco e Giuseppe Spedalieri. La folla chiedeva soprattutto la consegna di quest’ultimo, impiegato del catasto e responsabile a loro dire dell’aggravio dei tributi delle terre dei contadini. Si decideva così di erigere un tribunale rivoluzionario e condannare a quei prigionieri, innsieme al giovane chierico Vincenzo Saitta.

 

Le forze dell’ordine, intanto, si erano finalmente mobilitate, e all’alba del 5 agosto un battaglione al comando del colonnello Poulet faceva il suo ingresso nel paese. La rivolta era finita: 16 morti, 46 case saccheggiate e incendiate, 300.000 £ di danni. Era il tempo della vendetta.

 

Bixio era a Bronte già nella mattina del 6 agosto, mentre il suo battaglione giungeva a sera, dichiarando la cittadina colpevole di lesa umanità. Il generale garibaldino decideva così di requisire le armi e arrestare tutti i responsabili delle rivolte, servendosi di delazioni il più delle volte infondate. Poneva poi lo stato d’assedio e il coprifuoco.

 

L’avvocato Lombardo, che si era presentato spontaneamente, veniva subito tratto in arresto, con l’accusa di essere il promotore e l’istigatore del moto. Le calunnie dei suoi nemici, che prendevano voce soprattutto dalle delazioni del deposto presidente del municipio Sebastiano De Luca, ottenevano così il primo successo. I ducali, che all’arrivo di Garibaldi erano riusciti a camuffarsi da liberali e ad accreditarsi come rappresentanti del nuovo regime, capovolgevano ora su Lombardo persino l’accusa di fedeltà borbonica. E Bixio, del resto, decideva di assumere senza batter ciglio la prospettiva ducale. In quel momento, era necessario trovare delle vittime che facessero da terribile esempio agli altri rivoltosi della Sicilia; era necessario inoltre liquidare i capi politici più autorevoli del mondo contadino, restituendo alla ducea il controllo del territorio e l’esercizio dei suoi affari, nella fattiva collaborazione con quel ceto di civili locali che ad essa si erano avvinti.

 

Il finale di quell’agosto brontese era cruento.

 

La commissione di guerra istituiva sommariamente il processo, dando appena un’ora alla difesa e consegnando alla storia la sentenza di giorno 9: fucilazione per Nicola Lombardo, Nunzio Sampieri, Nunzio Longhitano Longi , Nunzio Spitaleri Nunno, Nunzio Ciraldo Frajunco.